domenica 26 aprile 2015

PRO O CONTRO. Protettivi o dannosi i sinergismi e antagonismi tra alimenti?

Tè verde in tazza di vetro con fettina di limone Gli anti-nutrienti sono una caratteristica dell’alimentazione sana e naturale, soprattutto grazie alle migliaia di sostanze extra-nutrizionali e pur tuttavia farmacologiche dei cibi vegetali, meglio ancora se integrali (fibre, polifenoli, inibitori di enzimi digestivi, lectine, fitati, saponine, ammine, glicosidi ecc.). Alcune, com’è arci-noto ormai, sono capaci di ridurre, fino ad annullare l’assorbimento di nutrienti utili (p.es. il calcio o il ferro, o gli stessi zuccheri), come i cibi ricchi di ossalati (spinaci, biete, barbabietole ecc.), ma in compenso possono essere potenti anti-cancro, addirittura anti-metastasi (come i fitati dei legumi).

Che fare, allora? Che atteggiamento avere nei confronti di alimenti e condimenti “anti”, che cioè apparentemente non vanno d’accordo con altri alimenti? Alle volte, visto che sono utili, basta spostarli a un altro pasto, dove sono meno incompatibili. Ma guardiamo le cose anche in positivo: molti sono i cibi e i condimenti che favoriscono l’assimilazione o l’attività preventiva-terapeutica di altri alimenti, sono cioè sinergici, sono “pro”. Ma nella complessità estrema dell’alimentazione naturale non è sempre facile distinguere tra cibi “pro” e cibi “contro” altri alimenti.

Gli orientali – si sostiene guardando le statistiche sanitarie – hanno  meno tumori degli occidentali (colon-retto, seno, polmoni, prostata: i cosiddetti “tumori dei Paesi Sviluppati”), perché consumano tanti legumi e pochi grassi animali. A parte che gli Orientali hanno molti più tumori degli Occidentali a bocca, esofago, stomaco e fegato, che sono i “tumori dei poveri e degli Antichi”, dovuti a scarsa igiene, mancato uso del frigorifero e usi sbagliati (troppe spezie piccanti, cibi bollenti, sale, conserve sottosale e affumicate, muffe e grassi rancidi da cattiva conservazione, nitrosammine e micotossine), ciononostante alcuni ritengono che in estremo Oriente la dieta sia più sana e preventiva della nostra, proprio anche per il minor assorbimento dei nutrienti. Già gli Antichi latini parlavano del gracilis indicus, l’indiano gracile. Oggi supponiamo che ciò accada anche per le piadine e minestre di legumi (dhal) mangiate ogni giorno. E i legumi sono ricchissimi di anti-nutrienti: prova ne sia che gli allevatori sono ben attenti a evitare che vitelli e agnelli giovani bruchino soia e altre piantine di leguminose.

Uno studio su European Journal of Clinical Nutrition del marzo 2007 dimostra che i cinesi con i loro legumi quotidiani – una naturale e involontaria dieta anti-obesità, anti-diabete, anti-colesterolo e anti-cancro – assumono però ogni giorno molti fitati, sostanze anti-cancro che riducono l’assorbimento di calcio, ferro, zinco e altri nutrienti. Un po’ come certi vegetariani: meno rischi di malattie gravi, ma qualche piccola carenza nutrizionale.

Perciò cercano, per compensare, i cibi che possano aumentare l’assimilazione del ferro non-eme, quello vegetale, della dieta. I legumi più della carne sono ricchi di ferro (5-8 mg), che però si assimila per il 5 per cento. Quello delle verdure per l’1-3 per cento. Il filetto di vitellone ne ha solo 1,9 mg, che però si assimila al 20 per cento circa.

Nei frutti ricchi di citrati, sali di un importante acido organico, l’acre acido citrico, c’è il segreto per aumentare molto la biodisponibilità di zinco e ferro: 40 per cento nel riso, 40-60 per cento nei legumi secondo uno studio di S. Hemalatha e coll. su Molecular Nutrition & Food Research (n.49). Fa eccezione il tamarindo, che ha troppo tannino anti-minerale, e quindi anche anti-ferro, per poter esplicare un’azione pro-assimilazione. E molti altri studi indicano verdure ricche di ascorbati o vitamina C, quindi per lo più crude vista la termolabilità della vitamina inadatta alle cotture, come potenziamento sinergico del metabolismo del ferro non-eme e perfino eme (quello della carne e di altri cibi animali).

Che lezione trarne per noi occidentali? Nulla che non faccia parte della nostra Tradizione più antica: oltre a ortaggi e insalate fresche che dovrebbero essere sempre presenti a pranzo e a cena, finiamo i tre pasti della giornata sempre con frutta (ascorbati) e, se è stagione, con agrumi come arance, mandarini, pompelmo (citrati e ascorbati). Ma l’acido citrico non è un anti-ossidante, a differenza dell’acido ascorbico, che oltretutto neutralizza i potenti carcinogeni presenti nei cibi naturalmente, come nitrosammine e aflatossine, o dovuti alla cottura o conservazione (ammine eterocicliche, idrocarburi come benzoapirene).

Va bene, certo, spremere un poco di succo di limone (fresco, mai quello industriale già pronto, che in pratica è poco più che acido citrico) su pesce o carne, in cui rende più assimilabile il ferro-eme; ma perché limitare a questo l’uso del limone? Va bene dappertutto, perfino sui farinacei come polente e riso integrale, purché dopo la cottura, a crudo.

E corretto con miele o zucchero integrale scuro melassa di canna (moscovado), eccelle anche nella salutare zuppa di fiocchi di avena e frutta secca del mattino, ricca di beta-glicani, perché ne modera il potenziale anti-minerale.

Ma il limone – ci dispiace per le signore inglesi che usano il latte trasformando una bevanda leggera e trasparente come il tè in un orribile e torbido “caffellatte” – va bene anche nel tè, come si fa in Italia, perché ne potenzia l’azione antiossidante, rendendo più resistenti alla degradazione nell’intestino i polifenoli del tè verde, soprattutto le catechine. In uno studio – come riferisce il ricercatore Mario Ferruzzi, aggregato alla Purdue University – si è visto che il limone permetteva la sopravvivenza dell’80% delle catechine del tè, garantendo quindi un maggiore assorbimento metabolico e una più forte attività farmacologica.

Ma così non si modifica in peggio il gusto del tè? Se si pensa questo, non c’è bisogno di spremerlo proprio dentro la tazza di tè, l’importante è che un po’ di limone sia assunto nello stesso pasto. Poiché de minimis non curat praetor, ma de minimis curat sapiens, anche di questa minuziosità di sono occupati i ricercatori.

Tè verde che, insipido quanto volete (qualcuno dice che assomiglia, quanto più è forte, all’acqua avanzata degli spinaci bolliti), però si conferma preferibile come bevanda salutistica al ben più delizioso ma astringente tè nero (a causa dei tannini). Meglio il tè verde, i cui polifenoli sono per lo più catechine (non ancora ossidate a tannini con la fermentazione umida che dà luogo al tè nero), accreditati da centinaia di studi scientifici di ogni proprietà protettiva.

Il tè verde al limone, per i suoi forti consumatori, sarebbe pure accreditato di un’interazione favorevole che favorirebbe i programmi tesi alla perdita di peso corporeo (Journal of Medicinal Food, febbraio 2013). Ma su questo non diciamo una parola di più, tanto il buonsenso denuncia come assurdo richiedere al vasto pubblico, che già dorme poco e male, un maggior consumo di bevande nervine.

Le storielle sullo scarso buonsenso dei ricercatori, tutti chiusi nei laboratori, lontani dalla vita reale, e capaci di vedere sempre e solo un aspetto scientifico alla volta, mai tutti insieme, si conferma soprattutto quando qualche studio esorta sani e malati a bere più tè o caffè, o a consumare più cioccolata, sempre per i “vantaggi” dei polifenoli! Il ricercatore-medio non lo aggiunge mai, ma nel tè verde non ci sono soltanto catechine, epigallo-catechine e gallati vari, ma anche caffeina. Che non è poca, e anzi – altra sinergia strabiliante – proprio grazie alla compresenza delle catechine, modula la propria efficacia prolungando l’emi-vita, cioè i tempi di degradazione metabolica nel corpo umano. Cioè, a parità di caffeina tra tè nero e tè verde (la pianta è la stessa, cambia solo il trattamento dopo il raccolto), l’effetto eccitante della caffeina, che sembra attenuato rispetto al tè nero, dura in realtà più a lungo, grazie alle catechine, prolungandosi spesso per molte ore e danneggiando in soggetti sensibili perfino il sonno notturno anche se una modesta tazza di tè verde è stata bevuta al pomeriggio! Il metabolismo rallentanto ha in pratica il medesimo effetto di una dose maggiore di tè. Cosa che col tè nero o il caffè non accade: grazie ai tanti tannini e alle poche catechine, la caffeina viene metabolizzata velocemente. “Eh, signora mia, quant’è difficile oggigiorno bere una tazza di tè: bisogna quasi essere dei chimici!”.

Ma poi, in fin dei conti, davvero siete così ingenui e creduloni da bere tutto quel tè verde dotato di caffeina solo per le sue catechine? Non mitizziamo questo polifenolo: sta in parecchi alimenti, anche i più innocui. Per esempio nella buccia delle mele. Mela, che però è un cibo serio, e pure zuccherino, quindi che sfama e dà calorie, non una bevanda a zero calorie e pure “voluttuaria”, per dirla con le odiose moralistiche definizioni che preti e dietologi assimilati davano alle bevande “nervine” tra Ottocento e Novecento, facendo sentire in colpa il borghese che le beveva, mentre il rozzo contadino doveva accontentarsi di surrogati.

Anche pane scuro, minestroni di legumi, spaghetti integrali, fiocchi di avena, minestre di farro, polenta di saraceno e riso integrale, hanno i loro composti critici.

Per “colpa” dei fitati nella provinciale e sottoculturale Italia ci sono nutrizionisti di Stato, pensate, che ne hanno paura e perciò sconsigliano, unici al mondo, i cereali integrali, e limitano i legumi. E invece sono proprio i nostri tipici cibi raffinati, pasta e pane, ad essere stati giustamente confinati tra i “cibi eventuali” in una Piramide americana, quella di Willett. Ma quale lobby difenderà mai i poveri legumi?

Perciò, rivalutiamo acido fitico o fitati (nel primo Novecento anche “fitina”), insomma l’inositol-exafosfato che secondo un ennesimo studio, quello di Vucenik e Shamsuddin su Journal of Nutrition (novembre 2003), inibisce la proliferazione delle cellule tumorali, per esempio nel colon. Dunque una conferma della sua attività protettiva anti-metastasi, che è la speranza più importante per quasi tutti i tumori.

Chi, viste queste premesse, vorrà ridurre i fitati anti-calcio, anti-ferro ecc.? Credo nessuno. Tutti ben contenti di tenersi qualche leggera carenza nutritiva, sempre compensabile. Potranno permettersi il lusso di ridurre i fitati solo quei pochissimi la cui dieta trabocca di fibre, legumi e cereali integrali mangiati ogni giorno (dai grani interi in minestra al pane, dalla pasta alla pizza, dalle lenticchie ai ceci ecc.), più le famose “5 o 6 porzioni di frutta e verdura” consumate nella giornata.

Cioè quasi nessuno, viste le cattive abitudini alimentari. Questi pochi – ma che gli oncologi non lo sappiano – potranno mettere in pratica i trucchi dei ricercatori citati da G.Urbano e coll. su Journal of Physiology and Biochemistry (2000): lasciare in ammollo tutta la notte i chicchi di cereali integrali e legumi, poi gettare via l’acqua, cuocere molto a lungo, o meglio “in ambiente acido” (pomodoro, limone, aceto?), oppure farli germogliare – la germogliazione riduce molto, fin quasi ad annullare in alcuni casi, il tenore di fitati – e-o consumare pane integrale a lievitazione acida, con la tradizionale “pasta madre” degli Antichi (anche la fermentazione acida del lievito lento tradizionale distrugge i fitati).

E ogni tanto per caso si scopre un’antagonismo o un sinergismo nuovo, come il latte aggiunto al tè, che ne riduce il potere antiossidante (si veda lo studio di Serafini di cui abbiamo parlato in altro articolo). O anche l’eccesso – ma solo l’eccesso, attenzione – di proteine animali, che non solo affatica i reni, ma aumenta anche l’escrezione del calcio, il che potrebbe aversi per un effetto paradosso, perfino tra forti mangiatori di formaggi che siano anche divoratori di carni e salumi (grandi mangiatori).

Si sa anche, da decenni, che molte spezie – gli alimenti più potenti dal punto di vista farmacologico – interferiscono col metabolismo di alimenti e farmaci, e che modificano diversi parametri biologici. P.es. hanno per lo più effetti anti-aggreganti piastrinici, cioè anti-trombotici e perciò andrebbero assunti con prudenza e avvisando lo specialista medico in caso di tendenza alle emorragie, trattamenti con salicilati e con farmaci anticoagulanti.

Molte spezie, anche erbe aromatiche e ortaggi, come aglio e cavoli, modulano la farmacocinetica, cioè la durata dell’azione, e dunque l’eliminazione, di molte sostanze chimiche, naturali e artificiali, di fatto prolungandone o abbreviandone l’azione. P. es. uno studio di McDanell su Human Experimental Toxicology mostrò che pasti a base di verze, cavoli e broccoli riducevano del 20 per cento l’emivita della caffeina favorendone una veloce escrezione, in 10 volontari che avevano bevuto caffè addirittura 3 ore dopo i pasti. Pensate se al posto del caffè ci fosse stato un farmaco salvavita: non avrebbe avuto il tempo di agire: sarebbe stato eliminato anzitempo dal cavolo mangiato a pranzo, senza che medico e paziente – magari in una terapia di emergenza – sospettassero nulla, fiduciosi dell’azione pronta del farmaco. La dose, insomma, a causa del tipo di cibo, sarebbe stata insufficiente.

E il capitolo delle interazioni tra alimenti, erbe aromatiche, spezie, bevande nervine e farmaci ormai è lunghissimo: sono stati scritti libri. Come il manuale pratico del fitoterapeuta medico Firenzuoli.

A differenza degli esperimenti di laboratorio sui topi (a cui può essere dato come cibo anche solo cavolo verza per giorni e giorni, oppure in dosi da cavallo qualsiasi principio attivo estratto da un alimento, senza che il povero roditore protesti, l’uomo ha il vizio di assumere contemporaneamente decine di alimenti diversi nel modo più casuale e imprevedibile. Le combinazioni possibili di nutrienti, principi attivi, sostanze agoniste e antagoniste, ossidanti e anti-ossidanti, sono infinite. Ogni alimento, poi, contiene migliaia di sostanze, che variano in percentuali perfino a seconda della stagione, del tipo di coltivazione, dell’area geografica ecc. Come fare a stilare la mappa completa delle “simpatie” e “antipatie” biologiche o tossicologiche tra cibo e cibo, e tra sostanza e sostanza?

Lo studio davvero scientifico degli alimenti è cominciato, si può dire, solo negli anni Novanta del Novecento. Migliaia di sostanze farmacologiche naturali di cui sappiamo ancora troppo poco sono presenti negli alimenti che consumiamo ogni giorno, alla rinfusa e per tanti anni, tra cui polifenoli, saponine, fitoestrogeni, lectine, polisaccaridi, fibre, solfuri di allile, glucosidi, enzimi anti-vitamine, inibitori delle proteasi, inibitori delle lipasi. Senza contare i nutrienti. E perciò non è facile capire fino a che punto questi “farmaci” agiscano da agonisti o antagonisti in un complicato intreccio di relazioni. Nel frattempo continuano ad agire dentro di noi, non si sa come. “Sono stati i cibi vegetali – confermò anni fa l’oncologo Giuseppe Della Porta – a selezionare duramente la specie umana, più degli animali feroci”. E ancora la “selezionano”, eccome: il 30-50 per cento dei tumori ha origine dalla dieta. Alimenti inquinati da pesticidi? No, tutti, compresi i cibi “bio”, s’intende. Anzi, anzi... il fatto che i vegetali organici abbiano un po’ più antiossidanti – questa la unica differenza chimica riscontrabile – deriva proprio dal fatto che per compensazione del mancato uso di pesticidi umani e di concimi carichi dell’uomo, la pianta secerne come auto-difesa più pesticidi naturali. Alcuni antiossidanti, ma altri tossici e produttori di radicali liberi. E per fortuna nella dieta mediterranea classica, non – attenzione – quella finta e addolcita di oggi che è solo business, come il made in Italy, ma quella di secoli fa, se non addirittura di Etruschi e Romani, ricca di cereali integrali, legumi e verdure, povera di grassi animali, senza eccessi proteici e scarsa di zuccheri semplici, e perciò auspicata e praticata da noi Naturisti, gli antiossidanti prevalgono. E prevalgono spesso proprio a causa di sostanze sinergiche che potenziano le attività anti-ossidanti o favoriscono gli enzimi anti-cancro o direttamente neutralizzano le cellule cancerose spingendole al suicidio programmato dell’apoptosi (come i glucosinolati di crescione, rucola, verza, broccoli, rape, ravanelli, cavoli ecc., che pure, a ben vedere, sono anche veleni, sostanze negative, in quanto “gozzigeni”, cioè favoriscono il gozzo in quanto antagonisti dell’ormone tiroideo tiroxina), o grazie alle altre sostanze antagoniste che si dimostrano detossificanti verso i radicali liberi o tossiche verso le cellule di cancro già formate.

E nel dubbio? Scontando una minore utilizzazione di nutrienti, è di regola preferibile non semplificare toppo la dieta, magari “per timore di interazioni” con questo o quel principio attivo, con questo o quel cibo, ma scegliere per il pluralismo totale, cioè la totale compresenza di molti alimenti (“bio-diversità a tavola”). Anche perché il numero notevole di alimenti vuol dire anche grande quantità di sostanze farmacologiche, però in piccole o piccolissime dosi. Che si possono neutralizzare o potenziare tra loro. Ma poiché il numero di alimenti è elevato, le quantità (porzioni) dei singoli cibi saranno minime, e i principi attivi confinati ai microgrammi e ai milligrammi. Il che anche dal punto di vista anti-nutrizionale e tossicologico è più rassicurante. Appare biologicamente e perfino storicamente più valida una dieta molto mista di numerosissime fonti alimentari, pur con tutti i possibili micro-rischi di interazioni, piuttosto che una dieta ridotta e selezionata, con pochi alimenti in quantità maggiori.